Già dalla prima lettura del CCII e della relazione legis, era da subito parso incontrovertibile che l’omologazione del concordato preventivo in continuità diretta, grazie all’art. 117 CCII (ed al secondo comma dell’art. 2740 c.c.), mirasse, una volta risanata l’impresa in crisi o insolvente, ad una stabilizzata esdebitazione del debitore proponente rispetto alle obbligazioni assorbite dal patto concordatario, rappresentando la continuità aziendale il valore da ricercare in via prioritaria[1], proprio perché la “continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro.” (art. 84, comma 2, CCII).[2]
Altrettanto pacifico appariva, alla luce dell’art. 2 n. 6 Dir. Ins.[3] che il legislatore domestico avesse deciso che la verifica del miglior soddisfacimento dei creditori consistesse in un rapporto comparativo - di non inferiorità - del piano concordatario (anche) in continuità del debitore, collettivo o individuale che fosse, con i verosimili risultati della liquidazione giudiziale sui beni del debitore (ovviamente anche rispetto ad un’azienda in esercizio, ove obiettivamente praticabile).
Difatti, sembrava questo il solo precetto enucleabile dagli univoci, in tema, art. 7, comma 2, lett. c), art. 84, comma 5, art. 87, comma 1, lett. c), comma 2 e comma 3, art. 88, comma 1 e comma 2 bis, art. 112, comma 3 e comma 4, nonchè 285, comma 4, CCII.[4]
In tale contesto appariva di indubbia rilevanza il riconoscimento tout court al singolo creditore - e quindi a prescindere dalla appartenenza ad una classe dissenziente o dall’entità del credito (come invece accadeva con l’art. 180, comma 4, L. fall. e tuttora rispetto alle ipotesi di concordato diverse da quelle in continuità; artt. 112, comma 5 e 285, comma 3, CCII) - della possibilità di contestare la convenienza della proposta, ex art. 112, comma 3 CCII (ed anche nel caso del “salva-concordato” di cui all’art. 53, comma 5 bis, CCII), in presenza di benefici inferiori rispetto al ricavabile dalla liquidazione giudiziale[5] (ferma comunque la verifica d’ufficio ad opera del Tribunale, e sin dalla fase d’ammissione, del rispetto delle cogenti regole di APR e RPR di cui agli art. 84 commi 5, 6 e 7 ed art. 88, comma 1, CCII).[6]
Dunque ed in sintesi: ad ogni singolo creditore nulla di meno di quanto ricavabile dalla liquidazione giudiziale (fermo, sostanzialmente, il pagamento comunque dei crediti da lavoro),[7] oltre quant’altro il debitore concordatario, nel rispetto delle regole di RPR (come anche modulate in via speciale nella sede della transazione erariale),[8] riterrà di proporre ai creditori grazie al plusvalore germinato della continuità aziendale. [9]
Vedremo fra poco che, alla luce del nuovo art. 120 quater, comma 1 e comma 2, CCII, tutto quanto sopra prospettato, rappresenta, invero, solo una “faccia” della disciplina del concordato in continuità aziendale diretta (destinato a perdere appeal rispetto a quello in continuità indiretta e con assunzione).
Innanzitutto, ci sembra importante ricordare che costituiva solo una facoltà - non un obbligo - per gli Stati ricomprendere tra le “parti interessate”, con diritto al voto, anche i soci/detentori di strumenti di capitale (art. 9, par. 3. a), Dir. Ins.: “In deroga al paragrafo 2, gli Stati membri possono escludere dal diritto di voto: i detentori di strumenti di capitale”; e quindi anche dall’applicazione degli artt. 9 e 11 Dir. Ins.)
Non solo: in tale ultima evenienza, l’unico precetto da rispettare sarebbe stato quello di offrire ai soci uno strumento di reazione contro i progetti ristrutturatori reputati pregiudizievoli, purché comunque strumento tale da non impedirli od ostacolarli irragionevolmente, vanificando quindi la finalità prima della Dir. Ins. (art. 12, par.1, Dir. Ins.: “Se escludono i detentori di strumenti di capitale dall'applicazione degli articoli da 9 a 11, gli Stati membri provvedono con altri mezzi affinché ai detentori di strumenti di capitale non sia consentito di impedire o ostacolare irragionevolmente l'adozione e l'omologazione di un piano di ristrutturazione.”)
Ebbene, il nostro legislatore ha dichiarato di essersi mosso proprio in tale contesto. Ecco, l’inerente passaggio della Relazione illustrativa al D.Lgs. 83/2022: “L’articolo 25 introduce nel Capo III, del Titolo IV della Parte Prima la Sezione VI bis che detta disposizioni specifiche sull’accesso agli strumenti di regolazione d ella crisi e dell’insolvenza da parte delle società introducendo gli articoli da 120bis a 120quinquies, che recepiscono i principi dettati dall’articolo 12 della direttiva e che intendono favorire l’utilizzo delle procedure di ristrutturazione da parte della società quale forma più diffusa di impresa interessata dalla ristrutturazione…”.
Salvo poi attribuire ai soci, tanto il diritto di voto (e quindi di opposizione in caso di dissenso, che a differenza del caso dei creditori va comunque espressamente esternato) nelle predisposte classi, facoltative ma in taluni casi anche obbligatorie (art. 120 ter CCII),[10] quanto, oltre la possibilità di formulare proposte concorrenti (art. 120 bis, comma 5, CCII), l’autonoma facoltà di opposizione all’omologazione, quindi ove anche non classati e dissenzienti, come nell’ ipotesi sub art.120 ter CCII, “al fine di far valere il pregiudizio subito rispetto all’alternativa liquidatoria” (art.120 quater, comma 3, CCII).
Non solo. Nonostante l’art. 12 cit. nulla preveda al riguardo (ed anzi la Dir. Ins., a partire dall’art. 2, n. 6 e Cons. 2, chiarisca bene, sia il concetto/i limiti del miglior soddisfacimento creditoris, che le finalità della ristrutturazione concorsuale)[11], offrendo anche alle classi dei creditori dissenzienti la possibilita’ di sostanzialmente “espropriare” i soci[12] di una parte del valore conseguente all’omologazione ” (art.120 quater, comma 1 e comma 2, CCII)[13] di un piano risanatorio coltivato con successo dai soli amministratori della società debitrice (art. 120 bis, comma 1, CCII) ed alla cui formulazione i soci risultano, appunto, estranei, oltre ad essere soggetti giuridici e patrimoniali ben distinti dalla società proponente (almeno nelle società di capitali).
Dunque, a prescindere dalla scelta della società debitrice - nel restare, per ora, all’interpretazione che sembra prevalere (v. nota 12) -, si offre ai creditori dissenzienti, per il sol fatto che il piano evidenzi “un plusvalore da continuità”[14], la possibilità di conseguire di più rispetto a quanto già proposto dal debitore in ossequio alle predette regole di APR e RPR e del miglior soddisfacimento creditoris.
Il tutto, però, avviene in una realtà sistemica in cui i concordati societari per antonomasia, cioè di gruppo, neppure sembrano ri-conoscere la disciplina degli artt. 120 ter e quater CCII.
Difatti, pur interessato dalla recente novella (anche attraverso il rinvio all’art. 112 CCII),[15] l’art. 285, comma 5, CCII, non solo non richiama alcuno dei predetti due articoli, ma sembra anche distaccarsene, implicitamente quanto chiaramente, allorché, dando prova di lungimirante applicazione dell’art. 12 Dir. Ins., limita gli strumenti a tutela dei soci alla sola opposizione all’omologazione, peraltro proponibile proprio - quanto esclusivamente - a salvaguardia del “ pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale”: altro che contendibilità, pro creditori contestanti, del valore delle partecipazioni dei soci post omologazione.
Per completezza, va osservato che comunque nello scenario del concordato di gruppo i soci non sembrano fruire di alcuna tutela per le ipotesi di piani che conducano “a modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci” (art.120 ter, comma 2, CCII). Salvo reputare che, stante il contenuto comunque economico di un qualsiasi diritto inerente una partecipazione societaria, la predetta opposizione sub comma 5 risulti esaustiva.
D’altra parte, non va dimenticato che la tutela di cui all’art.120 ter cit., pur coniata per l’ipotesi di proposta della società debitrice, potrebbe risultare preziosa per i soci anche nel caso di proposte concorrenti lato creditoris, ove risulti applicabile, così come l’art.12 Dir. Ins. induce a ritenere, anche all’ipotesi di “aumento di capitale della società con esclusione o limitazione del diritto d’opzione.” (art. 90, comma 6, CCII)., trovandoci, in tali casi, alla presenza di “modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci”.
In subordine, potrà almeno invocarsi la residuale opposizione di cui all’art.120 quater, comma 3, CCII.
E mantenendo lo sguardo rivolto sempre verso l’istituto in qualche modo più “sodale” ai primi due commi dell’art.120 quater CCII, cioè quello delle proposte concorrenti, balza subito agli occhi come l’applicazione della nuova regola distributiva di cui al comma 1 dell’art. cit. può invocarsi ove anche la classe dei creditori dissenzienti risulti inferiore a quel 10% necessario, appunto, per una proposta concorrente ex art. 90, comma 1, CCII.
Non solo: tale regola potrebbe invocarsi anche qualora la proposta della società debitrice sia superiore al 30% di cui al successivo comma 5 (ovvero al 20% in caso di “utile avvio” della composizione negoziata).[16]
Peraltro, sempre restando in tema, non va dimenticato che, come accennato, ora anche ai soci viene offerta la possibilità di formulare una proposta concorrente “ai sensi dell’articolo 90 (art. 120bis, comma 5, CCII); quindi ammissibile nel solo caso in cui la società debitrice non offra le predette percentuali.
Ma una tale proposta concorrente (in quanto) dei soci (e non dei creditori) è soggetta, comunque, alla stessa stregua della proposta della società debitrice, al regime parzialmente ablativo di cui ai commi 1 e 2 dell’art.120 quater CCII?
Nonostante tutto ciò, le predette disposizione di cui ai primi due commi dell’art.120 quater CCII hanno visto luce e, salvo forse applicarle come proveremo ad ipotizzare nel prosieguo, sembra indubbio possano divenire un serio dissuasivo alla proposizione dello strumento negoziale concorsuale per eccellenza, qual è il concordato in continuità diretta, oltre che un rompicapo di non poco momento per i relativi attestatori che, infatti , dovranno ben capire, come meglio accenneremo nel paragrafo che segue, quale sarà il tema d’indagine della loro relazione, dinanzi alla disarmonia tra dette speciali disposizioni e l’art. 87, comma 1, lett. c), comma 2 e comma 3 CCII.
Comunque, ora abbiamo, a fianco delle regole dell’APR e RPR di cui all’art. 84 CCII (cui si aggiungono quelle peculiari di cui all’art. 88, comma 1, CCII), la regola RPAR dell’art.120 quater CCII (cd. Relative Partners Rule).[17]
In ogni caso, prima di andare oltre, non ci si può esimere dal rinviare a due contributi, che, per primi, hanno affrontato in modo sistematico e con l’autorevolezza propria degli illustri Commentari, tale magma che rischia di avanzare irrefrenabile sul concordato in continuità aziendale diretta.[18]